Tutto è iniziato fotografando alberi. Uno in particolare, quello che ho messo qui: l’autoritratto. Quelle foglie lucenti e a tratti scure, l’esile resistenza dei rami e del fusto, il bisogno di aria e di sole mi hanno fatto pensare… a me! Autoritratto autunnale. Bene, punto. No, non era un punto: era un passo.
Poi c’è stata l’occasione. Il mio amico Vasco Rialzo, scrittore underground, mi chiede il favore di fotografare un suo reading del 23 novembre, quando metterà in scena con la brava Francesca Giannuzzi un racconto dei suoi, nel contesto suggestivo della casa di Barbara, un b&b ristrutturato con sapienza in via Serra 5, a Bologna. Già che ci siamo, mi mette in contatto con Franco Pilati, il proprietario, perché l’appartamento è anche galleria d’arte e magari può diventare un luogo espositivo per me. Incontro Franco in un pomeriggio luminoso di questo autunno freddo e bellissimo. Posso esporre, molto bene. Esploro la casa alla luce del giorno, la ricordavo suggestiva da una serata di mesi fa. Ora vedo che è anche riposante. La ristrutturazione ha seguito filologicamente lo spirito del quartiere. «Nessuno lo noterà», osserva Franco. Si sente, invece, si respira.
Comincio a pensare al progetto. Ho da tempo nel cassetto scatti di parti del corpo di persone, schiene con tatuaggi ispirati e delicati, mani che parlano nel modo sincero e a tratti nevrotico in cui parlano le mani. Penso di usarli, ma intanto ne scatto altri. Aver visto la casa mi è di ispirazione. Ce ne sono alcuni concepiti immaginando il vapore di un bagno caldo, sfocature come in un ritratto impressionista e la donna che ho in mente è una donna di Degas. Altri parlano di dettagli guardati a distanza ravvicinata, capelli a fuoco, mani e spalle come aure femminili. Questi scatti del corpo sono concepiti per l’appartamento, come figure che possano popolarlo.
Intanto, però, a prescindere, continuo a fotografare alberi. Mi piazzo sotto, la loro corteccia è saggia e merita una messa a fuoco generosa. Altre volte sono i rami a chiamare: grossi e drammatici, potati con brutalità. Oppure fragili, secchi come capelli sfrangiati.
Il linguaggio che esploro nei corpi femminili mi affascina perché nuovo, ma non so dove mi porterà. Quello che succede con gli alberi, invece, è compiuto e netto. Decido di unire i due percorsi, come un passaggio dall’uno all’altro. (Tuttavia mi chiedo: si capirà?)
Decido quali opere faranno parte della mostra. Ci penso diversi giorni, anche di notte. Sono coinvolta, ma senza angoscia né ansia da prestazione. Quando devo fare la scelta definitiva e portarle dallo stampatore (il migliore della città, Mimmo di Fina Estampa, praticamente un photo editor), decido su due piedi e senza esitazione.
Le stampe sono perfette. La sera devo andare a cena da un’amica, Carlotta. Le vorrei portare, ma so che non sarebbe una buona idea e a malincuore desisto. Porto però i file: voglio mostragliele, ascoltare il suo parere e chiederle un consiglio. Le piacciono. Mentre descrive il modo in cui ciascuna – ma anche l’insieme – sollecita il suo immaginario, nomina la parola “metamorfosi”. Le suggeriscono le metamorfosi di Ovidio, la donna che si trasforma in albero. «Potrebbe essere questo il titolo? “Metamorfosi”? O “Le Metamorfosi”?» chiedo. «”Le Metamorfosi”. Perché la direzione non è solo dalla donna all’albero, ma anche dall’albero alla donna».
A pochi giorni dalla mostra, quando penso al titolo, a questa visione regalatami da Carlotta, penso che sia tutto giusto: la donna che vorrebbe trasformarsi in albero, saldo e bello, sapiente, puro; e a volte riesce, sì, ci riesce. Altre torna carnale e mondana, sfocata e tenera, magra arrossata livida, bella in un modo più slabbrato: al modo, cangiante, degli umani.
